BUENOS AIRES - Per Camilla Rampazzo, Erika Carlucci, Sara Benchoucha e Martina Stillone, l’Argentina non è stata solo una destinazione per un anno di Servizio civile universale, ma un’esperienza trasformativa che ha messo alla prova le loro aspettative, le loro abitudini e persino il loro modo di intendere l’impegno sociale.

Le quattro ragazze — tra i 22 e i 30 anni — hanno partecipato al progetto “Todos Juntos”, promosso da Caritas Udine in collaborazione con Caritas San Martín, nel conurbano di Buenos Aires, che ha l’obiettivo di rafforzare il lavoro con persone in situazione di vulnerabilità, tra cui senzatetto e tossicodipendenti.

Arrivate nella città di San Martín, si sono trovate inizialmente a vivere in una ex residenza per suore, in un quartiere considerato tra i più difficili della zona. “All’inizio è stato complicato adattarsi al fatto di non potersi muovere liberamente – racconta Camilla –. Dover uscire sempre in gruppo, evitare di stare in giro dopo il tramonto. Ma anche questo è stato parte dell’apprendimento: conoscere il territorio e prenderne le misure.”

Nonostante la vicinanza culturale tra italiani e argentini, anche le differenze nei modi di relazionarsi hanno richiesto un periodo di adattamento. Nel frattempo, nei momenti liberi, le ragazze hanno viaggiato per il Paese e anche oltre: dalla Patagonia al Nord argentino, fino a Colombia e Brasile.

Ma il ricordo più vivido resta ancorato a un’immagine quotidiana e allo stesso tempo straordinaria: i tramonti visti dal dodicesimo piano dell’edificio in cui vivevano nel centro di San Martín. “Guardando quell’enorme periferia dall’alto ho avuto per la prima volta la sensazione concreta di quanto fosse vasta la provincia di Buenos Aires — racconta Erika, che vive a Pisa — e di quanto io fossi piccola in quel contesto.”

Le difficoltà, naturalmente, non sono mancate. Una delle più complesse è stata la convivenza: condividere casa, lavoro e tempo libero con persone sconosciute è stato, per tutte, motivo di scontro, ma anche di crescita. “Abbiamo vissuto tutto insieme, forse anche troppo intensamente, soprattutto nei primi mesi”, riflette Erika. Camilla sottolinea quanto sia stato importante imparare a riconoscere e affermare i propri limiti nella convivenza quotidiana.

Dal punto di vista professionale, le aspettative iniziali sono state messe in discussione e, a volte, stravolte. “Pensavo che il progetto mi avrebbe fatto crescere in un modo determinato, sul piano professionale – dice Erika –. Invece la vera sorpresa è stata crescere là dove non me lo sarei mai aspettata. Ho imparato molto dalle colleghe, dalle coinquiline, dalla semplice convivenza.”

Anche Martina, la più giovane del gruppo, riconosce di essere partita con aspettative forse troppo alte, ma di aver guadagnato una nuova visione: “Sono rimasta colpita dal modo in cui Caritas San Martín lavora. C’è una fede molto presente, che dà senso e speranza a molte persone, ma allo stesso tempo manca un approccio più tecnico e strutturato, che sarebbe necessario per affrontare certe problematiche in modo più efficace.”

È proprio questo il nodo centrale della riflessione delle ragazze: il confronto tra due modi di intendere il lavoro sociale. “Abbiamo cercato di portare una visione più organizzata, più strutturata, che possa rendere il volontariato uno strumento di cambiamento più incisivo”, spiegano. Durante l’anno hanno partecipato a incontri con altre organizzazioni locali, come il Foro della Società Civile, contribuendo anche ad ampliare la rete territoriale di Caritas.

A fine percorso, resta una convinzione condivisa: è nelle relazioni — anche quelle più difficili, a volte scomode — che si trova il cuore dell’esperienza. In una periferia sconosciuta, in una casa condivisa, tra differenze di linguaggio e di visione, si costruisce — giorno dopo giorno — una nuova consapevolezza, personale e collettiva. E forse è proprio questo, il vero obiettivo di ogni missione.